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INTERVISTE

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_Intervista a IAN ANDERSON (1)
_Intervista a MARTIN BARRE
_Intervista a DOANE PERRY
_Intervista a IAN ANDERSON (2)
_Intervista a IAN ANDERSON (3)

Il Resto del Carlino

INTERVISTA A IAN ANDERSON (1) (da Itullians n.1)

Durante l'ultima tournée dei Jethro Tull in Inghilterra siamo riusciti ad intervistare Ian Anderson nel camerino del Derngate Theatre di Northampton poco prima del concerto (davvero strepitoso) che ha concluso la breve tournée inglese (tra le altre cose hanno suonato Bungle in the Jungle, One Brown Mouse, Hunting Girl, Up the Pool, Mother Goose, We Used to Know, Life's a long song).
Anderson ci aveva dato appuntamento due giorni prima, dopo il concerto di York, alle 18, ma purtroppo Northampton era la tappa conclusiva del tour e Anderson prima del concerto ha avuto un sacco di questioni organizzative da risolvere all'ultimo momento e si è presentato tre quarti d'ora dopo. Ci ha chiesto scusa (ma non ne aveva certo bisogno...) ed è stato molto disponibile, addirittura fino a cinque minuti prima di salire sul palco!. L'intervista, ovviamente, non è lunga come volevamo e molte delle domande previste sono saltate, però ce n'è abbastanza. Abbiamo cercato di parlare con Anderson di argomenti che escano un po' dai rituali delle solite interviste che si leggono nelle riviste di musica, ma qualche argomento (ad esempio l'Italia) era obbligato. Il risultato è questo.

I Jethro Tull hanno suonato spesso in Italia, la prima volta nel 1971, l'ultima nel 1993. Che idea si è fatto del nostro Paese in venticinque anni, ha notato dei cambiamenti?
"In realtà non sono mai stato in Italia se non per dei concerti o. al massimo, qualche promozione alla radio o alla televisione. Ma non sono mai stato a lungo in Italia o in vacanza. E a dire il vero questo vale anche per la maggior parte dei posti dove ho suonato. Sono andato in vacanza per la prima volta negli Stati Uniti solamente l'anno scorso (1995, ndr) con la mia famiglia per vedere Los Angeles e San Francisco, posti dove in realtà ero stato forse centinaia di volte ma soltanto per andare sul palco e suonare. senza mai avere un giorno a disposizione per vedere qualcosa. Dunque non è che non voglia conoscere di più dell'Italia, o della Germania, o della Svizzera, ma non ne ho mai avuto la possibilità".

E per quanto riguarda i concerti in Italia?
"Da questo punto di vista devo dire che nei primi anni Settanta tutti erano un po' pazzi. Penso che il rock fosse qualcosa di totalmente nuovo in Italia nel '71 e '72 e il modo di organizzare i concerti era pure nuovo per i promoters. Il grado di professionalità che era richiesto da bands inglesi e americane era piuttosto elevato per gli standard italiani. Dal nostro punto di vista era piuttosto difficile suonare perché regnava il caos e c'era molta tensione. Intendiamoci: è bello che ci sia un po' di tensione in un concerto, essere un po' "carichi", ma non si può essere così preoccupati per lo show, per la propria sicurezza o l'incolumità della gente. Alcuni concerti in Italia si rivelarono proprio così, troppo carichi di tensione. Ci è voluto del tempo per raggiungere equilibrio fra l'essere entusiasti da un lato e non fare idiozie dall'altro".

Nel 1982, ad esempio, a Padova il concerto fu interrotto dal lancio di lacrimogeni e si verificarono degli incidenti fuori dal palazzetto.
"Sì, è vero, ma non fu poi così catastrofico quella volta. La gente comunque deve capire che occorre restare più calmi e divertirsi. E' stato molto più facile per noi negli ultimi anni suonare in Italia. In ogni caso mi è sempre sembrato più facile suonare nel nord dell'Italia, dove il "temperamento" è più simile a quello nord-europeo che non al sud, dove si respira un'aria più "latina". Quando si va a Roma le cose sono già più difficili. Mi sembra che l'ultima volta che abbiamo suonato a Roma sia stato all'inizio degli anni '80

A dire il vero è stato nel luglio del 1988, al Palazzo della Civiltà del Lavoro
"Davvero? Beh, non importa. Comunque succede ovunque: in Gran Bretagna per esempio è tutto il contrario, c'è molto più calore ed entusiasmo al nord, mentre nel sud la gente è decisamente più compassata. In realtà si generalizza sempre sulle persone e talvolta non è giusto. Questo accade con una certa facilità negli Stati Uniti, un paese enorme dove ci sono differenze notevoli dalla East Coast a Los Angeles, da New Orleans a Minneapolis. Eppure sono sempre americani, e parlano la stessa lingua".

A proposito di nord e sud, in Italia già da alcuni anni c'è un movimento politico, la Lega Nord, che parla di secessione della parte settentrionale del paese. Ne ha sentito parlare? E cosa ne pensa, essendo scozzese, dei venti secessionisti che soffiano anche in Gran Bretagna: recentemente Sean Connery è addirittura apparso in televisione perorando la causa dell'indipendenza della Scozia dalla Gran Bretagna?
"Non ho sentito parlare del caso specifico della Lega, ma in effetti la stessa cosa sta accadendo in molti paesi, soprattutto negli ultimi dieci anni, ognuno è lì a sventolare la propria bandierina per rompere con i legami politici; penso alla Cecoslovacchia o alla stessa Gran Bretagna, dove ciclicamente in Irlanda, Scozia e a volte perfino nel Galles si parla di indipendenza. Io, nonostante sia scozzese, vivo in Inghilterra, ho la maggior parte dei miei investimenti in Scozia. Vivo in un paese che si chiama Gran Bretagna e per quanto mi riguarda resta un "regno unito". Credo che tutto quello che sta accadendo in questi anni in tutto il pianeta sia che la gente vuole rompere ogni legame, vuole il proprio pezzetto di mondo, ma se noi prendiamo un microcosmo nei Caraibi possiamo anche considerarlo indipendente, ma le cose non possono andargli tanto bene, perché non c'è modo di essere autosufficienti, e l'unica cosa da fare è lasciare investire dall'estero nel turismo, ma allora non è più indipendenza. Lo stesso vale per cechi e slovacchi, il cui pensiero fondante è "meglio soli che con gli altri". Eppure anche il Texas forse starebbe meglio senza l'Oklahoma o la Louisiana (e parlo di uno stato, il Texas, più grande di molti paesi europei). Questi istinti nazionalisti mi sembrano pericolosi. Dietro a questo separatismo spesso si celano antichi rancori, differenze di religione, lotte di classe. Questo mi fa paura, a volte mi sembra che stiamo tornando al Medio Evo. Eppure si sperava che questo scorcio di secolo fosse dominato dalla tolleranza, dall'accettare gli altri. I nazionalismi sono pericolosi. Può darsi che in Italia esistano degli argomenti forti che io non conosco a favore della separazione, ma non credo che il ritorno alle fratture dei secoli scorsi sia positivo.
(Anderson fa una breve pausa, sorseggia la sua tazza di caffè mentre un altoparlante annuncia che al concerto mancano pochi minuti: noi ci sentiamo di troppo, ma Anderson continua a parlare con convinzione, l'argomento sembra interessarlo)
"Ah già, e poi c'è la Scozia. Parlavate di Sean Connery? Bene, dove sono i suoi soldi? Non in Scozia, ma in una fottutissima banca svizzera. Connery non ha scelto però di risiedere in Scozia, per problemi di tasse. Temo che quello che Sean Connery dà alla Scozia in termini di impegno "per la causa" o di elargizioni sia ben poca cosa rispetto a quanto darebbe se pagasse le tasse alla Gran Bretagna e quindi, in parte, alla Scozia. Personalmente non credo nella separazione della Scozia dall'Inghilterra".

Cambiamo argomento, ma restiamo in Italia. Da noi le persone che hanno una buona conoscenza dell'inglese sono piuttosto poche. Di conseguenza anche fra i fans dei Tull la percentuale di chi comprende bene i testi delle vostre canzoni è minima, anche perché non si tratta di un linguaggio molto facile. La domanda è questa: quanto contano i testi di una canzone? Il cinquanta per cento? O meno?
"Molto meno, diciamo il venticinque per cento, in media, nel panorama del rock. Forse per il primo Bob Dylan le parole valevano il settantacinque per cento, ma per un gruppo come noi i testi non possono catturare più del venticinque per cento dell'attenzione. Ma se prendete la maggior parte della musica probabilmente la percentuale è ancora più bassa, spesso sono solamente dei collage di frasi fatte e ripetute"

Non è il vostro caso...
"Sì, in effetti io credo di fare qualcosina di più, comunque ripeto, non credo che i testi possano incidere più del venticinque per cento. La melodia è più importante".

Compone prima i testi o le melodie?
"Non c'è una regola, cambia sempre: talvolta i testi, altre volte la musica, altre ancora prima di tutto arriva il titolo. E' interessante, trattando questo argomento, pensare alle nazioni dove non parlano inglese perché non lo imparano a scuola. In Germania, Svizzera o Olanda molti parlano un discreto inglese, lo studiano e le vedono in televisione. In Francia poche persone hanno una buona conoscenza dell'inglese, in Spagna e Italia ancora meno, in Grecia è un disastro, in Sud America pochissimi capiscono la mia lingua. Eppure siamo molto popolari proprio in paesi dove non sanno una parola di inglese e in un certo senso è un onore essere apprezzati in questi paesi perché significa che al pubblico piace la nostra musica su un piano più "astratto", un po' come accade con la musica classica. E' molto intrigante".

A proposito di testi, in molte canzoni dei Tull si ritrovano echi della tradizione letteraria anglo-sassone. Penso a Thomas Hardy o a T.S.Eliot, per fare due nomi. C'è un preciso riferimento al passato?
"No, non li conosco affatto. A scuola non ho studiato letteratura inglese, per cui non so nulla sui poeti e i romanzieri inglesi, né Shakespeare, per dire, né Dylan Thomas. Non ho mai letto le loro opere nemmeno in seguito. Io ho studiato soprattutto materie scientifiche e poi arte. Ho studiato la lingua inglese, per cui ho un buon vocabolario e conosco la grammatica. Ma di letteratura inglese sono assolutamente digiuno".

Strano. E' comunque interessante notare che fra "Baker Street Muse" e "Waste Land" di T.S. Eliot ci sono parecchi punti in comune.
"Ah, davvero ? Proverò a dare un'occhiata allora. Non leggo nemmeno molta fiction a dire il vero. Compro i libri negli aeroporti, e mi capita a volte di scoprire dopo qualche pagina che quel libro l'avevo già letto. E spesso quello che leggo lo trovo ripetitivo e noioso. Ma, per esempio, John Le Carre è un ottimo romanziere contemporaneo. Scrive un ottimo inglese, tanto che nelle prime pagine si fa fatica a seguirlo, occorre abituarsi. Ma ne vale la pena. Non sono un appassionato di "spy novels" generalmente, ma Le Carre va molto oltre le storie di spionaggio, anche se quello è l'ambito nel quale si muove. E' un eccellente narratore e sa delineare i personaggi con molta più cura rispetto a quanto si legge di solito. Mi piace davvero, ma purtroppo non ho molto tempo per leggere. Nemmeno... chi era, Eliot? Sì, Eliot! Beh, forse un giorno ce la farò" (ride)

Passiamo alla musica. Per celebrare i 25 anni del gruppo è stato pubblicato Nightcap nel quale, per sua stessa ammissione, era stato "raschiato il barile" dei nastri inediti pubblicabili. Però esistono almeno altri due pezzi, noti come "Tomorrow was today" e "Hard Headed English General", suonati dal vivo tra il 1971 e il 1972 che non hanno mai visto la luce. C'è qualche speranza di poterli sentire?
"Non me la ricordo affatto. No, proprio no. Il fatto è che nei Jethro Tull ci sono sempre stati dei brani suonati dal vivo che non erano stati ancora registrati o non lo furono mai. Forse questo non è accaduto molto spesso negli ultimi due o tre anni, ma tante volte ci sono stati dei brani, magari strumentali, che non facevano parte degli album, o rivisitazioni di altri brani in maniera molto diversa dall'originale"

Un po' come lo strumentale alla fine di Aqualung nella versione della tournée 95/96 e che ora è riproposta nel bis prima di "Cross Eyed Mary"
"Sì, proprio così. Parte dal riff di Aqualung, da da da da da da, ma poi è molto più ritmata, un po' alla Bo Didley. Infatti la chiamiamo Aqua-Didley! Tornando al discorso di prima, succede che pezzi strumentali facciano parte del nostro repertorio live e magari non finiscono nei dischi. A volte anche canzoni vere e proprie, soprattutto nei primi tempi, quando provavamo letteralmente sul palco le nuove canzoni, ben prima di inciderle. Fu così per My God, che faceva parte del set nella tournée del 1970 e poi uscì su Aqualung l'anno dopo"

Tra l'altro la prima versione aveva un testo diverso dalla registrazione definitiva e recentemente su Internet c'è stato un lungo dibattito sul significato di quelle parole.
"Sì, è vero (ride) ne ho sentito parlare. Comunque esiste una versione differente"

Nella scaletta dell'ultima tournée c'è molto materiale dagli anni Settanta, da One Brown Mouse a Bungle in the Jungle, da Too Old to Rock'n'Roll a Hunting Girl. Di quegli anni "manca" solamente Minstrel in the Gallery (a parte la lunga suite di Passion Play, che però fa storia a sé). L'assenza di "Minstrel" è casuale o motivata dalla resa "live" o, semplicemente, per problemi di tempo?
"All'inizio di questo tour abbiamo provato, fra i vari brani, anche "Minstrel in the Gallery". Ma alla fine dovevamo fare i conti con il fatto che uno show dura due ore. Abbiamo cercato di fare una selezione di pezzi che sia almeno del 50-60% diversa dall'ultima volta che abbiamo suonato in questo Paese (la Gran Bretagna, ndr). Cerchiamo un compromesso e cerchiamo di variare la scaletta. Se ci badate cambia molto da una tournée all'altra nello stesso Paese. Non si potrà mai avere una scelta perfetta. L'anno prossimo, ad esempio, suoneremo in Europa...

Anche in Italia?
"Sì, è probabile. Comunque dicevo che nel prossimo tour ci saranno come minino sei canzoni diverse dalla scaletta di questi giorni. Tenendo conto che molte delle canzoni che stiamo suonando adesso non sono mai state eseguite per dieci o vent'anni (penso a "Bungle in the Jungle"), o addirittura mai, come "Up the Pool". Molto dipende da dove suoniamo, nei teatri inglesi ci piace fare parecchi pezzi acustici, cosa che non faremmo mai in America o in Germania dove ci considerano un gruppo essenzialmente rock".

Però nel 1992 il tour acustico di "A Little Light Music" ebbe un buon successo, anche in Germania.
"Sì, certo. A me, personalmente, piacque moltissimo".

A proposito di brani acustici, per quindici anni è rimasta nascosta una gemma come " Broadford Bazaar", mai suonata nemmeno dal vivo. Come mai?
"Sì, non è male. Però è un po' troppo vicina alla tradizione del folk inglese. Mi piaceva quando l'ho iniziata, ma nel momento in cui l'avevo finita non mi piaceva già più. Per quello non fu mai completato il missaggio. In fondo ci sono solo io che canto e suono la chitarra, nient'altro. (Nient'altro????, ndr)

Il testo, comunque, è piuttosto complesso, soprattutto per noi italiani, zeppo di riferimenti legati all'isola di Skye.
"Ah sì, tra gli aspetti "negativi" della canzone c'è anche questo: gli argomenti sono effettivamente un po' troppo "isolani". Bene, mi spiace non potermi dilungare a lungo ma il tempo è proprio scaduto. Ciao a tutti e... arrivederci in Italia"

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JETHRO TULL WORLD TOUR ‘97

INTERVISTA A MARTIN BARRE (da Itullians n.3)

Abbiamo incontrato Martin Barre più volte durante la tournée italiana. A Rimini, poco prima del concerto, ha trovato un po' di tempo per fare due chiacchiere (in velocità, vista l'atmosfera non proprio distesa al Velvet, un locale che, per usare un eufemismo, non ha entusiasmato Anderson). Ci siamo limitati a chiedere a Martin alcuni particolari della tournée '97 tralasciando domande classiche che, pur non essendo mai apparse su Itullians, hanno trovato posto in decine di riviste e giornali nel corso degli anni. ma Martin ha parlato anche del futuro...

Parliamo del set che fa parte del tour italiano. Chi ha scelto la scaletta e con quale criterio? Qual è stato
l'apporto dei membri del gruppo?

«A Ian piace che ognuno di noi si presenti alle prove con qualche idea sulla scaletta, poi lui prova a casa e decide quali sono i pezzi più indicati per la voce o per suonare il flauto. Alla fine sceglie i brani in cui si sente più a suo agio. Voglio dire: io posso suonare qualsiasi cosa, ma quando sei il cantante e devi reggere per un'ora e mezza o due allora cerchi di scartare le canzoni più dure da rendere o con le tonalità più alte. Insomma, tutti portano dei
suggerimenti e poi Ian decide. Questo, ovviamente, non riguarda i pezzi strumentali. Decido io quali miei pezzi suonare e Ian sceglie invece i suoi per flauto».

In Italia avete suonato Morris Minus (dal primo lp solo di Barre, A Trick of Memory) e Misere (dal
secondo, The Meeting). Ci sono altri tuoi brani in repertorio?

«Talvolta cambiamo, ma al momento abbiamo in scaletta solo questi due. Nient'altro da The Meeting». Non sarebbe male suonare almeno un pezzetto, diciamo il "riff" di chitarra, di The Potion, uno dei brani più convincenti e più “tulliani” di The Meeting.
«Torniamo al problema di prima: si tratta di un pezzo cantato, tra l'altro da una donna, e quindi bisognerebbe decidere con Ian la fattibilità. Ma in realtà i Jethro Tull lo hannosuonato questo pezzo: quando ho compiuto 50 anni lo scorso novembre eravamo in tour in Gran Bretagna e abbiamo festeggiato l’evento sul palco di Reading suonando proprio The Potion con Maggie Reeday ospite alla voce. Una splendida versione».

Che chitarre usi ora?
«Solamente Manson, al momento, costruite in Inghilterra».

Una curiosità: le corde quanto durano, un solo concerto?
«No, ci faccio circa tre serate prima di cambiarle. In studio non le cambio mai: non mi piace il suono troppo metallico ed enfatico delle corde nuove. Sul palco è un'altra storia: l'umido e lo sporco costringono a cambiare abbastanza spesso. E' bello sentire delle corde pulite! Ma non suonano meglio, servono solo per "sentirle" meglio. Specialmente sull'acustica».

Nel tour program del '90, quello della tournée nei piccoli teatri inglesi, Barre indicava alcuni dei brani
dei Tull preferiti. Fra questi c'erano A Song for Jeffrey, Farm on the Freeway e Aqualung che fanno tuttora
parte del set. Quali sono gli altri brani che preferisci fra quelli che state suonando o anche fra quelli che ti
piacerebbe suonare dal vivo?

(dopo un'esitazione, come pensasse a dei titoli) «Devo dire che mi piacciono tutti i pezzi dei Jethro. Se proprio mi sforzassi a pensare forse troverei qualche pezzo che non mi piace. Al momento non me ne viene in mente nessuno, ma sono pochissimi e sicuramente è materiale che non abbiamo mai portato sul palco. C'è un mucchio di musica che mi piacerebbe però suonare dal vivo dal punto di vista chitarristico, come delle parti di Passion Play. Ma andando
ancora più indietro, a Stand Up o Benefit, troviamo pezzi mai suonati dal vivo che mi attirano».

A proposito di Benefit, all'inizio del tour '95 faceva parte del set "Nothing to Say", mai suonata per 25
anni, ma fu cancellata a partire dal terzo concerto. Perché?

«Bella memoria! Il motivo fu che non funzionava sul palco. Per la voce, voglio dire. Era dura da cantare, e lasciammo perdere».

Puoi raccontarci come sono strutturate le prove prima di una tournée come questa?
«La maggior parte del lavoro la facciamo a casa, ognuno impara la propria parte per conto suo un paio di settimane prima della tournée, al massimo un mese prima. Suoniamo tutti i giorni, è una specie di costruzione graduale, anche se personalmente non voglio fare "troppo" prima dei concerti perché mi piace che nelle prime date tutto sia a posto ma che resti anche spazio per un po' di incertezza e nervosismo. Della serie: "Mi ricorderò proprio tutto?" "Farò degli sbagli?" Così è più eccitante suonare! Dà la giusta carica di adrenalina. Tornando alla preparazione: due o tre giorni prima del tour ci troviamo tutti assieme e si lavora sui particolari, ad esempio su come legare due pezzi insieme».

Le canzoni vengono preparate semplicemente ascoltando i dischi?
«Sì. Però, ovviamente, poi si lavora sugli arrangiamenti. Ci sono alcuni aspetti di una canzone che è importante che rimangano identici alla registrazione ufficiale. Ad esempio in A Little Light Music abbiamo suonato alcuni pezzi stravolgendoli completamente, come Living in the Past o A New Day Yesterday e oggi, quando li ascolto, mi rendo conto che non è più la stessa canzone e soprattutto che non era necessario cambiare. L'originale era meglio. E' bello
aggiungere qualcosa o cambiare brevi passaggi strumentali, ma la linea melodica e le parti strumentali più importanti devono rimanere le stesse».

Parliamo allora dell'assolo di chitarra di Aqualung, uno degli highlights del concerto. Cambia, nel
fraseggio, più o meno ogni anno, ma la struttura di base è la stessa ed è riconoscibile. Come ci lavori: cambi
assolo prima dell’inizio della tournée o improvvisi sul palco?
«C'è uno spazio molto piccolo che separa il suonare un assolo sempre allo stesso modo, che sarebbe noioso per me, e mantenere tutte la caratteristiche principali dell'originale. Ci sono piccole cose che cambiano tutte le sere, magari le stesse parti infilate in momenti diversi. Più suoni un assolo, più suoni le stesse cose, perché le cose che funzionano sono "sicure". Le prime venti volte che suoni un assolo cerchi una direzione. Quando l'hai trovata tendi ad omologarti
a quella scelta ed è difficile staccarsi. E' come essere in un fossato, più ci sei dentro e più difficile è venirne fuori.
Quando accordo la chitarra, prima del concerto, magari penso all'assolo e mi dico: "stasera lo provo così". Ma le differenze non sono enormi».

E' stato difficile spostare l'assolo dal sol al fa, avendo abbassato di un tono Aqualung per venire incontro
alla voce di Ian?

«Sì. Cambia tutto. Cambiando tonalità è come riscrivere tutto. Non parlo del riff all'inizio e alla fine, che più o meno resta uguale, ma suonare in una chiave differente è profondamente diverso, cambiano le posizioni».

Ma una chiave può essere più difficile di un'altra?
«Sì, per la chitarra sì. Ma è bello usare tonalità difficili: tiene "vivi"».

Qual è il pezzo dei Jethro più difficile che tu abbia mai suonato o che suoni adesso dal vivo?
«Non c'è niente di difficile in senso assoluto. Semmai il problema è ricordare tutto. Faccio un esempio: My God è un pezzo tecnicamente facile per chitarra, è quasi impossibile commettere errori a meno che uno venga urtato o distratto e sposti la mano! Ma bisogna sempre essere concentrati, perché se uno si distrae un attimo è finito, anche nei pezzi facili. Ma siamo tutti musicisti, sono anni che suoniamo...»

Però We Used to Know è ben più facile di Passion Play...
«Sì, ma proprio perché è facile c'è il rischio di deconcentrarsi! E' una sfida rendere al meglio un assolo in un pezzo molto semplice. Ma il lavoro è tutto mentale, non fisico».

Glenn Cornick, quando è stato in Italia per la convention di Itullians, ci ha ricordato che quando
registraste Living in the Past ti lamentavi perché c'era qualcosa che non andava. Ed è rimasta sul disco anche
se nessuno se ne accorto! E' vero?

(pensa un po', poi sorride) «Ora che ci penso mi sembra che ci fosse un accordo sbagliato sul disco. Sì, probabilmente feci un errore, ma così rapido che è quasi impossibile coglierlo».

Avete già registrato brani nuovi come Jethro Tull?
«Sì, parecchi. Stiamo lavorando su un nuovo album».

Simile a Roots to Branches?
«No, totalmente differente. Così come "Roots" è diverso da "Catfish Rising". E' un altro passo avanti. Al momento potrebbe prendere qualsiasi direzione. Quando si fa un album nuovo si dimentica tutto il resto. E' presto per dirlo, ma potrebbe essere un grande cd. E' molto "forte"».

I pezzi sono tutti composti da Ian?
«Sì, lui come sempre ha messo le idee basilari. Poi io, Ian e Andy (Giddings) lavoriamo sugli arrangamenti».

Rivedremo presto i Jethro in Italia? Magari per i 30 anni del gruppo? E cosa è in programma per un
traguardo così importante?

«Non c'è al momento nulla di speciale programmato per i 30 anni. Suoneremo dal vivo, sicuramente. Ma non credo che torneremo così presto in Italia. Questa tournée è andata molto bene con il tutto esaurito ovunque anche perché non venivamo qui da tempo. Ma non credo avremmo lo stesso impatto fra un anno. Non avrebbe nemmeno senso dire che per i 30 anni si fa qualcosa di grandioso se lo si fa a gente che ci ha già visto da poco tempo. Andremo in
America e in qualche mercato dal quale manchiamo da più tempo, come l'India».

Che cosa pensi delle arene scelte per i concerti italiani? Sono troppo piccole?
«Questo è un problema dei promoter. Molto spesso hanno paura di esagerare e non giocano d'azzardo scegliendo la prudenza».

E c'è anche pochissima pubblicità!
«Il discorso è sempre quello: si tirano fuori pochi soldi».

Un'ultima cosa: i programmi futuri di Martin Barre?
«Sto ancora lavorando sulla distribuzione del mio secondo cd, The Meeting, ma le case discografiche sono interessate solo se vendono decine di migliaia di cd. Non è il mio caso. La Chrysalis, tanto per fare un nome, non ha nulla a che fare con me. E non l'avrà mai. Peccato che adesso quel lavoro sia vecchio! Sto già cercando di pensare a qualcosa di nuovo».

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JETHRO TULL WORLD TOUR ‘97

Intervista a DOANE PERRY - (da Itullians n.4)

La sera del 31 luglio, dietro al palco a Vigevano, abbiamo fatto due chiacchiere con Doane Perry, batterista dei Jethro Tull dal 1984. Di tempo, come al solito, ce n’era molto poco, ma siamo riusciti ugualmente - mentre Doane si cambiava per andare in scena al termine della conferenza stampa in municipio - a fargli qualche domanda. Doane si è rammaricato di non avere più tempo a disposizione, ma ci ha promesso un seguito più avanti. Non si tratta dunque di un’intervista particolarmente approfondita, ma poche risposte bastano comunque a far emergere un’ammirazione smisurata per Anderson e una straordinaria dedizione alla compattezza del gruppo, sia in termini musicali che di amicizia. Chi fosse interessato ad un’intervista a Doane molto più articolata e interessante (anche dal punto di vista "tecnico" del drumming) la può trovare sulla rivista "Drum Club" di settembre 1997. L’ha fatta Paolo Sburlati, un caro amico di "Itullians".

Fai parte dei Jethro Tull ormai da 14 anni, una militanza piuttosto lunga all’interno di un gruppo che ha visto molti avvicendamenti, molti dei quali li hai vissuti in prima persona. Pensi che l’attuale line up dei Tull sia - come io credo - una delle migliori formazioni come resa sonora dal vivo?

"Onestamente non posso dare una risposta perché penso che ogni aggiunta, ogni versione dei Jethro Tull abbia avuto talmente tanti punti di forza che posso dire solo che questa è una formazione differente, né meglio né peggio delle altre incarnazioni della band. Perché chiunque sia stato nei Jethro ha portato la propria personalità. E credo che tutti siano stati grandi. Sono contento che l’attuale formazione piaccia, noi facciamo del nostro meglio. Ma ho apprezzato tutti i cambiamenti di questi anni nei Tull".

Qual è il tuo ruolo nel gruppo in studio di registrazione, nelle esecuzioni dal vivo e nella cura degli arrangiamenti?

"Dipende dalle situazioni. Ad esempio, suonando dal vivo ci sono potenzialmente maggiori difficoltà che si presentano ad ogni serata. Parte del mio compito, essendo il batterista, è quello di tenere il tempo. Ma tutti i membri del gruppo sono fondamentali in questo, non solo io, anche se, ovviamente, questo è più legato al mio strumento. Dunque questa è la prima cosa. Ma cerco anche di stare al passo con quanto avviene dal punto di vista melodico. E cerco di assecondare il flauto e la voce di Ian come la chitarra di Martin o gli altri strumenti. Quello che conta è che noi cinque non siamo sezioni separate. Cerchiamo tutti di lavorare insieme in un intreccio molto unito. A seconda dei momenti suono più con Ian o con Andy. Il mio punto di riferimento cambia continuamente. Questo è un po' il ruolo che ognuno di noi si assume nei Jethro. Dal vivo, riassumendo, è importante mantenere la compattezza e la robustezza del gruppo, facendo al tempo stesso sentire tutti a proprio agio".

E in studio, invece?

"In questo caso ognuno di noi si presenta con delle idee personali sugli arrangiamenti. Ian a volte porta una canzone già ben definita, altre volte invece è solo uno "scheletro", e tutto il gruppo comincia a lavorarci sopra per tirar fuori qualcosa che convinca tutti e cinque. Ci sono tutte le nostre personalità nel prodotto finale dallo studio".

E' vero, come si è più volte raccontato, che Clive Bunker è stato uno dei tuoi maestri di batteria?

"No, non lo è stato effettivamente. In realtà, però, ho imparato moltissimo da lui ascoltando i dischi dei Jethro Tull. Ricordo che lo incontrai quando ero ancora molto giovane e lui mi mostrò, in camerino dopo un concerto, come si suona My Sunday Feeling".

I Jethro Tull ti piacevano da tempo, ben prima di essere un membro del gruppo...

"Sì, ero un vero e proprio fan" - interrompe Doane.

Puoi raccontarci allora come avvenne il tuo ingresso nel gruppo?

"Questa a dire il vero è una storia molto, molto lunga e ora non c’è tempo. Comunque, per farla breve: io venni a sapere che i Jethro cercavano un batterista e mi arrivò una chiamata da New York. E inoltre avevo già lavorato con Pat Benatar, che faceva parte della stessa casa discografica dei Jethro, la Chrysalis. Il produttore di Pat mi raccomandò a Ian ma io non lo sapevo [in quel momento il "roadie" di Doane gli porta le ultime cose utili per salire sul palco, asciugamani, una borsa, ecc.]. E poi nemmeno lui sapeva dove io fossi in quel momento e non sapeva se fossi disponibile o interessato. Quando lo richiamai, fu molto contento e mi spiegò tutto. E così mi presentai. Ma io ero appassionato da sempre dei Jethro, ero andato a vederli spesso. E quando nel 1980 Mark Craney, mio grande amico, entrò nel gruppo come batterista io fui felice quanto lui. Per me, credimi, è un grandissimo onore suonare in questo complesso anche dopo tutti questi anni. Mi considero davvero fortunato ad avere la possibilità di suonare musica meravigliosa tutte le sere. Non mi stancherò mai, è un posto splendido e non avrei mai pensato, quando avevo 14 anni, che un giorno sarei stato il batterista dei Jethro Tull".

Nel tour program del 1990 relativo alla tournée inglese, nominavi alcuni dei tuoi pezzi favoriti di tutti i tempi scritti da Anderson. Di quelli, Songs from the Wood, Skating away, Heavy Horses e Farm on the Freeway fanno ancora parte della scaletta attuale. Hai altri pezzi preferiti in questo set?

"Abbiamo cambiato la scaletta parecchio, in realtà [si riferisce al fatto che, ad esempio, in Italia non hanno suonato Skating away, ndr]. Mi metterebbe in difficoltà scegliere qualche pezzo in particolare da questo set, mi piacciono davvero tutti, per diverse ragioni. In primo luogo perché in ogni brano che stiamo eseguendo la musica cambia continuamente. Uno dei miei brani favoriti in assoluto resta "Black Sunday". Non tanto perché è una canzone difficile, ma perché si tratta di un brano di musica drammatico e elettrizzante. E' un po' che non lo suoniamo. In parte perché ci siamo chiesti se il pubblico lo può apprezzare nello stesso modo con cui recepisce altre cose più semplici. Ma tutte queste canzoni, comunque, hanno un feeling particolare per me, non è che in questo set abbia delle preferenze più che in altri. Forse hai in mente qualcosa in particolare?".

Sì, penso che Dangerous Veils, tratta da Roots to Branches, sia un autentico tour de force per te. Mi sembra uno degli highlights dello show per la batteria.

"In effetti mi piace moltissimo. Ed è davvero duro da suonare tutte le sere perché ci sono un mucchio di stop e contrattempi. La cosa più difficile è dover cercare di far sembrare un unico amalgama tutte le sezioni che compongono il brano. Dangerous Veils è molto faticosa da suonare non solo per me: direi che il brano in sé è molto complesso".

(Mancano tre minuti allo show, Doane deve scappare. Resta solo il tempo per un paio di curiosità tecniche) Come ti regoli con i monitor sul palco?

"Non uso monitor, ma solamente queste piccole cuffiette, nelle quali sento tutto il gruppo suonare e non solo la batteria. Se saltano quelle per me è la fine. E anche per voi!"

Usi metronomi o campionatori sul palco?

"No, nulla di tutto questo per quanto riguarda la batteria. Abbiamo solamente qualche battuta pre-registrata, come l'inizio di Songs from the Wood, naturalmente. Ma tutte le percussioni sono assolutamente live".

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INTERVISTA A IAN ANDERSON (2)
ROMA, 9 NOVEMBRE 1999 (di Michele Manzotti)

“Sei emozionato?”. Questa la frase di mia moglie dopo una notte da incubi in preda al mal di stomaco. E mi doveva capitare proprio la notte prima del concerto di Roma dei Jethro Tull e, cosa più importante, dell'intervista a Ian Anderson concordata grazie al mio compagno di viaggio e di avventura romana Ernesto De Pascale. Era una maledetta forma virale, proprio prima del giorno che aspettavo trepidamente e per il quale i miei colleghi di lavoro avevano coniato tutte le peggiori battute.

Faccio il viaggio a Roma, insieme a De Pascale e all'altro amico Sergio Salaorni che insieme avevano combinato una serie di appuntamenti nella capitale, in una sorta di stato catartico. Mi riprendo piano piano durante la giornata grazie al clima tiepido, a un'overdose di tè e orzetti vari, e soprattutto al pensiero rivolto all'appuntamento. Dalle 17,30, ci comunicano, sarà spostato alle 18,30, ma che importa. E anche se il giornale avesse voluto qualcosa dettata a braccio, pensavo a mia moglie che mi aveva detto: “Scusami, ma proprio tu avresti problemi a scrivere sui Jethro Tull?”. Lasciamo l'auto in centro per raggiungere in zona Eur il Palacisalfa in taxi per evitare ingorghi in entrata e in uscita e già ai cancelli c'è un po' di folla. Riconosco il mitico Wazza Kanazza (e che non poteva esserci?) e Giovanni Zito (encomiabile la sua presenza ai concerti lontano dalla sua Palermo), ma devo lasciarli subito perché dobbiamo avvicinarci per l'appuntamento. Il servizio d'ordine ci fa entrare portandoci all'interno del palazzetto (piccolino per la verità): promoter e assistenti ci tengono nascosti (si sa, Anderson è fatto a modo suo). Ma per la prima volta ascolto parte di un sound-check. E' Steel Monkey e a quel punto il mal di stomaco diventa fortunatamente un ricordo lontano.

Non è stata organizzata alcuna conferenza stampa per la mini-tournée e prima di noi c'è solo un altro giornalista. Poi Alberto Artese, che già incontrai a Vigevano, ci dà il via. Mrs. Shona ci accoglie con molto garbo britannico pregandoci di non stringere la mano a Ian prima del concerto. Solo due giornalisti erano ammessi ma Salaorni aveva il registratore che avrebbe immortalato il colloquio. Si apre la porta e come dice Gastone Moschin nel primo “Amici miei”... ho visto la Madonna.

Bene, passiamo alla parte professionale dell'incontro, i cui chiediamo ad Anderson il segreto di tanta vitalità.

«Non vedo tanta differenza — risponde — tra me e, ad esempio, una persona che per tanto tempo lavora in un negozio nel centro di Londra. Quando lasciai la scuola più di 30 anni fa pensavo di fare il pittore o il musicista professionista, non la rock-star. Oggi posso dire di aver fatto un lavoro che mi piace e che mi diverto ancora a fare».

Negli anni sono cambiati i temi delle canzoni che compone?

«Aqualung l'ho scritta nel 1971, ma la sento attuale perché il tema di cui parla (i barboni, i disadattati) lo vedo tutti i giorni. Io ho tre metodi per scrivere brani, innanzitutto quello di immaginare un paesaggio con delle persone all'interno e di descriverlo, poi ci sono le canzoni ispirate alle emozioni personali, quindi delle brevi storie. Le fonti di ispirazioni sono tante: nell'ultimo album ho scritto un pezzo che si chiama El Nino. Ho trovato su Internet i dettagli su questo fenomeno atomosferico e ho scritto il brano. Diciamo che mi sento come un pittore».

Cinque date italiane a luglio, due a novembre. Forse questo è l'anno in cui i Jethro Tull sono venuti di più nel nostro paese. Il motivo?

“Dopo i concerti estivi e quelli in America abbiamo deciso di continuare a suonare in paesi europei dove ci eravamo già esibiti, ma di scegliere per quanto possibile teatri o locali di dimensioni limitate. Innanzitutto per avere un rapporto diverso, meno distaccato, con chi viene a vedere i nostri concerti. Ma soprattutto è un modo per ringraziare chi continua a seguirci e a comprare i nostri dischi”.

Il quarto d'ora per l'incontro finisce troppo presto, anche per lo stesso Anderson, ma Mrs.Shona deve essere inflessibile. Gli chiedo di Mark Craney (lo stesso faccio con Doane Perry il quale mi dice che Mark è ancora in attesa di trapianto) e alla fine rimedio due autografi di rito: su Aqualung e sulla vecchia audiocassetta di Stand Up. “Faremo molti brani da questo album”, preannuncia Anderson.

Libero da quest'incombenza (l'incontro c'è stato e il giornale “in diretta” non prende niente) posso finalmente pensare al concerto. E' stato venduto un tetto massimo di biglietti tanto che molti sono restati da giorni a bocca asciutta. Ma alla fine si è evitato il sovraffollamento in uno spazio limitato. Comunque un tutto esaurito confortante anche per la presenza di tanti giovanissimi.

Veniamo alla scaletta del concerto: Steel Monkey, For a Thousand Mothers, Serenade to a cuckoo, Spiral, Nothing is Easy, Jeffrey Goes to Leicester Square, Fat Man, Awol, A New Day Yesterday che contiene l'interludio strumentale di Kelpie, Dot Com, Boris Dancing, Hunting Girl, Hunt by numbers, l'introduzione pianistica di Flying Dutchman seguita da My God, la marcia dalla parte finale di A Passion Play (ovvero da Magus Perde come tutti abbiamo imparato da Itullians n. 11) e l'inossidabile Locomotive Breath. Quindi i consueti bis: Aqualung. Living in the Past, Dogs/Balloons e Cheerio. Un programma in bilico tra Dot Com e Stand Up, ben equilibrato e con alcuni momenti magici. Cito tra tutti My God, Dot Com con il flauto di bambù suonato da grandi, e la parte acustica con i due gioiellini di Stand Up. La voce di Anderson, che non sentivo da Vigevano '97, tutto sommato è accettabile ma è soprattutto la presenza scenica che colpisce, il dialogo con Barre, e la sua forza di “direttore d'orchestra”. Sostanzialmente ho visto tutti in buona forma e soprattutto ho notato un pubblico festoso e attento al tempo stesso. Un po' come quando si beve un whisky d'annata. E' è indubbio che una giornata del genere ha funzionato come elisir di lunga vita.

P.S. Dimenticavo, l'articolo non è mai stato pubblicato sulle pagine degli spettacoli della “Nazione”, nonostante mi avessero detto di scriverlo. Meno male che abbiamo una redazione Internet con tanto di giornale Web apposito (le indicazioni per leggerlo ve le dà Aldo tra le news della fanzine). E d'altra parte Dot Com non poteva che finire in rete... M. M.

Indice

INTERVISTA A IAN ANDERSON (3) (da Itullians n.8)

EMI ADDIO: I JETHRO CAMBIANO CASA

Abbiamo incontrato Ian Anderson a Barcellona il 10 novembre. Prima dello show ci ha concesso un’intervista (poi trasformatasi in una chiacchierata sugli argomenti più strani) incentrata, principalmente, sulle novità discografiche. La più importante riguarda il “divorzio”, dopo 30 anni, dalla Chrysalis che da qualche tempo era in realtà stata acquisita dalla Emi. Ian era in gran forma, è stato cortesissimo e ha dimostrato di non voler trascurare gli Itullians...

Sono mesi, ormai, che si parla dell’imminente publicazione di “The Secret Language of Birds”, secondo cd solista di Ian Anderson. Ma la prima scadenza indicata (ottobre) è scaduta, e così pure la successiva indicazione, ovvero entro Natale. A questo stato di cose si aggiungono le voci di una possibile rottura tra i Jethro e la Emi-Chrysalis, senza contare che un nuovo lavoro dei Tull è atteso ormai da tre anni. Come stanno in realtà le cose?

“Non è facile spiegarlo in poche parole. Allora: i Jethro Tull sono stati sotto contratto con la Chrysalis fin dal 1969. Ma a metà degli anni Ottanta la Emi comprò metà della Chrysalis e poi, sul finire degli anni Ottanta, acquisì anche l'altra metà. E ha licenziato tutti. Al punto che nel 1995 hanno chiuso definitivamente la Chrysalis, che da allora non esiste più in nessuna parte al mondo, tranne forse in Francia. Nell'ufficio a Londra avevano tenuto appena quattro persone per rappresentare tutti gli artisti sotto contratto: l'addetta stampa, l'addetto al back catalogue, un tale che fa le pubbliche relazioni e una segretaria. Avevano a disposizione un corridoio, nemmeno una stanza: un corridoio! Finché un bel giorno hanno sbaraccato: un lunedì mattina i quattro arrivarono per scoprire che la Chrysalis era stata chiusa.

A quel punto la piega che avevano preso le cose non era affatto buona. E avrete saputo che un anno dopo è stata chiusa pure la Emi a New York: anche lì gli impiegati hanno trovato le porte degli uffici chiuse improvvisamente. Addirittura con i propri oggetti personali dentro! Questo direi che non è il modo migliore per gestire una casa discografica: non ho alcun rispetto per gente che tratta i propri dipendenti in quella maniera. Ma non avevo altra scelta per quanto riguardava trent'anni di produzione discografica dei Tull, perché la Emi è proprietaria del contratto Chrysalis, e quel contratto dà il diritto perpetuo sul copyright delle nostre produzioni nel corso degli anni.

Morale: la Emi possiede l'intero catalogo, sicché dovrò avere, finché campo, un rapporto con la Emi. Oppure con chi eventualmente comprasse la Emi nell'arco dei prossimi mesi, probabilmente la Bmg. Ma ugualmente dovrò mantenere un rapporto con quella gente perché detiene tutto quel materiale.

Io ho provato a parlare con i responsabili della company anche una settimana fa cercando di ricomprare il catalogo dei Jethro, con i diritti di copyright, ma non credo proprio che me lo venderanno. Né a me né a nessun altro. Perché ne hanno bisogno: la Emi è in cattivissime acque; le quote societarie non valgono nemmeno la metà di quanto valevano pochi anni fa. Le cose vanno davvero male. E se stanno per vendere hanno bisogno di dare il maggior valore possibile alla compagnia, tenendo un “back catalogue” come il nostro, oltre alla musica classica, il pop, gli anni Sessanta eccetera. Non penso proprio che cederanno nulla. Dunque non ho scelta: devo continuare ad avere a che fare con loro.

Per quanto riguarda il nuovo materiale dei Jethro, invece, una possibilità ce l'ho perché lo scorso ottobre (o settembre? beh, alcune settimane fa...) il nostro nuovo contratto con la Emi è cessato in quanto non abbiamo registrato un nuovo album dal ‘95. Questo ha fatto decadere i termini del contratto. E, come si può immaginare, nell'ultimo anno - anno e mezzo, non ho voluto registrare un nuovo lavoro dei Jethro senza essere assolutamente sicuro che avremmo voluto rimanere con la Emi. Perché se avessimo registrato un cd, sarebbe stato prorogato automaticamente il vecchio contratto. Così, non registrando nulla in questi tre anni, quello che potevo fare era dedicarmi ad un album “solo”, in quanto non ero sotto contratto con la Emi come artista solista, tranne che nel catalogo di musica classica.

Così sono stato libero nell'ultimo anno di dedicarmi a questo progetto personale, ma non perché non volessi fare un disco dei Jethro Tull. Ora sia io che il gruppo siamo svincolati dal contratto con la Emi, e siamo liberi di parlare con altre persone. [Prende alcuni fax e ce li mostra] Vedete, nel giro di poche settimane sceglieremo tra le parecchie offerte che abbiamo ricevuto (una quindicina) e firmeremo due o tre contratti con obiettivi differenti per l'Europa, gli Stati Uniti, il resto del mondo”.

Che tipo di Casa discografica cercano i Jethro Tull?

“Il tipo di compagnia con cui mi piacerebbe legarmi è una Casa come era la Chrysalis 25 anni fa: piccola, indipendente, con 50 o 60 persone che vi lavorano e che pubblica una decina di album all'anno o poco più. Ma che lavora sodo per i propri artisti. Perché essere sotto contratto con un colosso, la Emi, la Bmg, la Sony, non ha senso per un gruppo come i Jethro Tull. Non siamo un “pop group”, non siamo le Spice Girl o altra gente da classifica. Dobbiamo scegliere tra quindici possibili Case. Dobbiamo valutare bene tutte le offerte, andare anche in America, vedere come lavorano da quelle parti. Perché tanti parlano, dicono che fanno questo e quello, ma poi...”

L'album solista, ci pare di capire, è allora pronto per la pubblicazione...

“Sì. Ma non lo è "effettivamente" finché non avremo firmato il contratto. Probabilmente si tratterà della stessa compagnia sia per l'album “solo” che per quello dei Jethro. Abbiamo però un problemino. Il tempo per pubblicare un disco è di circa dodici settimane, dal momento in cui il master tape è pronto fino al giorno in cui il cd arriva sugli scaffali dei negozi. E tre mesi ci porterebbero all’incirca alla fine di febbraio; il nuovo album dei Jethro, intanto, è programmato per la fine di agosto. Ma le due date sono troppo vicine. La mia attività promozionale (pubblicità e conferenze stampa) per il cd “solo” anticiperebbe di appena sei mesi lo stesso lavoro che sarebbe necessario anche per il disco dei Jethro. La gente a quel punto direbbe: “Oh, di nuovo Ian Anderson: abbiamo appena parlato con lui, non ci interessa più”. E' più o meno quello che accadde con Divinities e Roots to Branches, che uscirono separati di sei mesi l’uno dall’altro nel 1995. Si rivelò un intervallo di tempo troppo breve.

Penso però che la nostra nuova casa discografica sarà più propensa a dirci che è meglio fare uscire prima l'album dei Jethro e poi quello di Anderson. E' quello che almeno io farei se la Casa fosse mia!”

Anche il nuovo album dei Jethro Tull è già pronto?

“No. Non avrei potuto registrarlo, altrimenti sarebbe stato di proprietà della Emi! Non ci sono registrazioni dei Jethro pronte. Se ci fossero, la Emi verrebbe a prendersele”.

Però ci saranno delle tracce, delle idee, degli spezzoni...

“Sì, certamente. Ma non c’è nulla di “confezionato” al momento”.

Che tipo di lavoro è “The Secret Language of Birds”? Ha qualcosa a che fare con “Divinities” o dobbiamo aspettarci l’Andersondi “Dun Ringill” e “Wond’ring Aloud”?

[Scuote la testa quando nominiamo Divinities...] “Sì - interrompe - il modello è simile a quello di queste canzoni. Musica acustica; mandolini, chitarre... In tutto ci sono due brani strumentali e dodici pezzi cantati”.

Qualche membro attuale o ex dei Jethro Tull ha suonato in “The Secret Language of Birds”?

“Andy Giddings suona un mucchio di cose: dalle percussioni acustiche alla fisarmonica, al piano... anche il basso. Io suono un po' di basso, percussioni, mandolino, buzuki, flauto. Poi c’è Martin [Barre] che suona una parte di chitarra elettrica in uno o forse in due pezzi; Gerry Conway, che è stato batterista dei Jethro nel 1982, suona in due brani. Poi c’è un altro batterista, che ha suonato anche con Martin... [non gli viene in mente il nome e ride]

Proviamo a suggerire: Marc Parnell?

“No è un altro, molto amico di Jonathan Noyce... [Non gli viene proprio in mente, io penso che possa essere Darren Mooney] Ah, che memoria! Beh, andiamo avanti: anche mio figlio James suona la batteria in un brano”.

“Boris Dancing”, il pezzo strumentale che state suonando qui in Spagna e che fu eseguito con una base pre-registrata alla convention tedesca in aprile farà parte del cd solo?

“Sì, è uno dei due pezzi strumentali cui accennavo prima”.

Fra poche settimane, o mesi, due nuovi lavori di Ian Anderson saranno, oltre che nei negozi, nelle redazioni dei giornali per essere recensiti. Nel corso di trent’anni di vita della band il rapporto con la critica non è sempre stato idilliaco. Le stroncature (anche gratuite) sono state molte, soprattutto alla fine degli anni 70 quando il personaggio Anderson, al di là della musica, veniva preso di mira. Oggi com’è il rapporto con la critica?

[con tono molto diplomatico] “Io ho sempre detto agli addetti stampa delle case discografiche: per favore non mandatemi tutte le recensioni di dischi e concerti, ma mandatemi solo quelle negative. Non mandatemi quelle positive: ho già letto un mucchio di belle parole sui Jethro Tull, non ne ho più bisogno. Non mi serve leggere “quanto sono bravo”. Ho invece bisogno di sapere i pareri di quanti ci stroncano, perché alcuni si svegliano solo con la luna storta quel giorno; ma ad altri in maniera sincera non piace il disco e lo spiegano con qualche buon motivo e io voglio sapere qual è quel motivo; altri infine odiano i Jethro, qualsiasi cosa facciano, e forse non è troppo importante leggere questi commenti, ma voglio comunque vedere le critiche. Le case discografiche pensano che sia pazzo. Tutti gli altri artisti dicono ai manager: Non mandarci le critiche, per carità...”.

Dopo quelle per i 20 e i 25 anni, penso che l’idea di un’ennesima celebrazione del gruppo non vi stimoli più. Però sono passati trent'anni, e da alcuni mesi si parla di uno (o più?) cd live dei Jethro commemorativi. Cosa c’è di vero?

“Alla Emi c'è un certo Steve Davies, che lavorava alla Chrysalis (è l'unico rimasto alla Emi!); beh, lui si occupa dei progetti speciali inerenti al catalogo. E abbiamo pensato con lui di fare un album live definitivo. Con alcuni brani tratti da Bursting Out, altri da A Little Light Music, altri da Living in the Past, più altre live tracks, anche alcune che non sono mai state incise [a parte gli inediti penso che i riferimenti siano al volume 4 del cofanetto dei 25 anni e ai due cd della Bbc a Londra, 1984 e 1991]. L'idea era quella di rimasterizzare il tutto e presentarlo in una bella confezione per farne il disco “con la D maiuscola” dei Jethro Tull dal vivo. Perché abbiamo in catalogo già degli album live più qualche pezzo sparso qua e là. E questo crea un po' di confusione. Non credo che chi entra in un negozio per comprare i Tull dal vivo abbia una scelta univoca davanti. La maggior parte dei nostri fans ha comunque già comprato questi dischi oltre ad un mucchio di bootlegs. E possono continuare a comprare i dischi pirata e magari tirarseli pure giù da Internet!”

Perché non pubblicare alcuni dei bootleg migliori, come fece ad esempio Frank Zappa? Servirebbe tra l’altro a scoraggiare l’acquisto di cd pirata...

“Sì, ci ho pensato a fare “bootleg dei bootleg”. Ma il suono è tremendo. Penso che sia una delusione per chi si aspetta di ascoltare qualcosa di buono dal vivo sentire materiale del genere [noi non siamo d’accordo, vero?]. Potremmo al limite mettere alcune registrazioni pirata alla fine dei cd, senza necessariamente segnare sulla confezione che questi pezzi ci sono, ma metterli di seguito, come testimonianza. Tra l’altro ci potrebbero perfino essere problemi di royalties da pagare a chi ha fatto i bootlegs! E' una situazione paradossale, ma da tenere in considerazione”.

[Da questo deduco un paio di cose: 1) Anderson ha ascoltato parecchi bootleg 2) Se è sincero sulla qualità del suono o è troppo pignolo o non ha sentito certe cosette che ho io... 3) Visti i rapporti con la Emi non ha saputo dirmi esattamente cosa succede di questo live album, accidenti!]

[C’è una novità, però, in vista per i fans. Ma non perché la domando io. Ce la suggerisce proprio Ian.]

“Vorrei aggiungere una cosa. Più o meno per Natale i Jethro Tull avranno un sito ufficiale su Internet. Non dico questo perché ho intenzione di riempire le varie fanzines con questo annuncio, ma sarà uno strumento utile, soprattutto per voi. Al momento abbiamo sistemato il 50% del sito, anzi lo ha fatto Andy Giddings, che è il web-master della situazione. Nel sito ci saranno le novità sul gruppo, biografie dei musicisti, ci sarà un press-kit ufficiale con le biografie, foto di alta qualità che potrete usare per la pubblicazione; insomma, un tipo di informazione professionale. Si terrà conto delle esigenze di tutti, per esempio ci saranno biografie di tre lunghezze differenti, a seconda degli interessi. Che altro? Ci saranno le date dei tour, le uscite degli album, ecc. Sarà più facile avere l'accesso per voi [A New day, fan club ecc] e poi divulgarlo, perché in molti ancora non usano Internet, specialmente in Europa, mentre in America la percentuale è più alta.

Per noi questo è il momento di far e l’ingresso in rete perché la crescita è velocissima e lo sarà ancora di più nei prossimi mesi in Europa. Questo significa per noi l’impegno ad aggiornare il sito ogni settimana, saremo attenti a far trovare sempre qualcosa di nuov, perché non si può fare delle pagine Internet e lasciarle lì. Chi torna sul sito dopo qualche settimana non vuole trovare la solita roba.

Ci saranno poi delle storie: ho scritto a tutti gli ex membri della band chiedendo loro di scrivere, di raccontare cosa fanno, cosa hanno fatto, dove suonano, se hanno foto recenti. A proposito ci saranno parecchie fotografie, come in una grande famiglia. Chi vorrà sapere cosa sta facendo Clive Bukner o Jeffrey Hammond è servito. Ah, pure i quadri di Jeffrey saranno in Internet! Lui ne ha centinaia, perché sono 23 anni che dipinge, da quando ha lasciato i Jethro. E ha riempito la casa! Ci saranno una cinquantina dei suoi quadri migliori. Magari qualcuno li comprerà...”

Chi seguirà le pagine web?

“Se ne occuperà Andy Giddings, che adora i computer, mentre io li odio. A dire il vero io e mia moglie lavoriamo in un unico ufficio e magari passiamo un giorno intero così: lei davanti a un pc impegnata, che so, nella contabilità, e io davanti ad un altro pc scrivendo i testi di qualche canzone. E quando mi chiedo cosa si mangia per cena le invio una e-mail anche se è a un metro da me! E’ terribile: odio i computer”.

Ma i testi del nuovo album sono nati al computer? Allora non è più tempo di bigliettini volanti adorati dai collezionisti...

“Sì, tutti i testi del mio album solista sono nati al computer. Anzi, in tre o quattro casi il primo spunto l’ho scritto in vacanza, giusto un appunto. Per esempio la canzone “Montserrat”: mi trovavo a Montserrat un anno e mezzo fa dopo la prima violenta scossa di terremoto. E per alcuni giorni fu molto più sicuro trasferirsi per stare solo in una parte dell’isola, ma noi siamo andati comunque in città e fu pericoloso, anche in aeroporto dove la lava arrivava vicino alla pista. Poi ce ne andammo, e poche settimane dopo ci fu il disastro: morì molta gente, l’aeroporto fu distrutto. Mentre ero là scrissi alcune idee per una canzone.

Ma fondamentalmente è la prima volta che mi sono seduto davanti ad un computer con lo schermo bianco per scrivere i testi. E i sono trovato bene perché puoi cancellare con facilità, spostare le parole e quando hai finito tutto resta memorizzato. Per esempio quando si va in studio e magari si fa una modifica la correzione si fa in un attimo. E poi lo spelling è giusto, i paragrafi sono giusti. Mi basta a quel punto mandarlo a chi fa la copertina senza dovere, come una volta, riascoltare il disco per capire cosa avevo cantato! Non tenevo mai gli appunti. E’ interessante sedersi e creare con la tastiera. Per me è una novità”.

[Ormai senza freni, Ian qui ha cominciato a parlare di un episodio che gli è venuto in mente collegato al computer]

“Recentemente una compagnia aerea mi ha chiesto un articolo per la rivista che distribuisce in volo. Doveva essere sui luoghi importanti della mia vita, ma ho aspettato talmente tanto a scrivere che alla fine ho parlato soprattutto di una breve vacanza fatta a Venezia con mia moglie pochi giorni prima della consegna! Mi hanno anche chiesto di scrivere di viaggi e luoghi lontani con una certa regolarità, ma non è proprio il mio mestiere. Per adesso faccio il musicista e continuerò a farlo. Magari il giorno che non ce la farò più a suonare potrei mettermi a scrivere: sarebbe un bel modo per viaggiare gratis”.

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