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COMMENTI CRITICI

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WARCHILD OLTRE L'ASCOLTO: LA SVOLTA DEL MENESTRELLO

di Aldo Tagliaferro

Superato lo scoglio di Passion Play, penserete, ora la strada non può che essere in discesa. Sbagliato: "War Child" è un disco estremamente complicato. Per due motivi: da un lato serba ancora i germi di quella fervida stagione coincisa con i due concept album (del resto nei "Chateau D’Isaster Tapes" c’erano già Solitaire e Skatin’ Away), dall’altro Anderson inizia un’era nuova che possiamo identificare nella figura del menestrello, che d’ora in poi Ian - disincantato, stanco delle polemiche, ma anche narciso e a modo suo ironico - impersonerà almeno per tutti gli anni Settanta, indossando ora i panni agresti di "Songs from the Wood", ora quelli rinascimentali di "Minstrel".

Cerchiamo di essere più chiari: in questo album c’è tutta la ricchezza allegorica dei due lavori precedenti, ma c’è anche un nuovo livello di comunicazione del quale Anderson prende ora coscienza e che prima mancava. Ian non si sente più un autore che ha semplicemente qualcosa da esprimere, sia perché difficilmente sarebbe potuto andare oltre quella escalation che lo aveva condotto a Passion Play, sia perché è conscio che qualsiasi messaggio (anche il più semplice) rischia di non essere colto o - peggio ancora - di essere dileggiato, malinteso o rifiutato dai critici. Che fa allora Anderson? Inventa una voce narrante "terza", fa il buffone di corte, quello che formalmente canta a comando ma in realtà castiga i costumi con canzoni apparentemente innocue. E’ una figura classica in letteratura sin dai tempi antichi e molto presente in Inghilterra dal periodo elisabettiano: il "fool" è un personaggio centrale in molte opere di Shakespeare, è in qualche modo la coscienza dell’autore, della piazza, dell’opinione pubblica. Anderson compie questo passaggio in modo plateale, eppure la critica pare non accorgersene e saluta il "nuovo corso" dei Jethro pensando di aver convinto Anderson ad abbandonare le lunghe suite. E dire che nelle note dell’epoca della Chrysalis distribuite alla stampa si parlava di "War Child" come del "quarto concept album" dei Jethro, includendo in questo modo anche Aqualung!

Ebbene, "War Child" è invece una lunga suite nella quale sono stati semplicemente potati quei "ponti" che collegavano le varie parti di "Passion" e "Thick". Ma c’è grande unità di intenti, di visione e di sonorità, nonostante i pezzi siano stati scritti in un arco di tempo piuttosto lungo (Two Fingers era in gestazione dal 1971...).

Con ciò non intendo esaltare acriticamente l’album o sostenere che Anderson non abbia commesso errori (lo sono stati sia il "ritiro" dalle scene minacciato nel ‘73 sia l’espatrio in Svizzera per non pagare le tasse), ma questo periodo segna il passaggio definitivo e irreversibile dall’Anderson più vero, più naif e vitale al musicista-manager scaltro e sempre padrone della situazione. Fin troppo. Anderson diventa il re travestito da buffone che tasta il polso al popolo; è come l’Enrico V shakespeariano che, vestito da semplice soldato, passa tra le tende delle truppe la notte prima della battaglia di Agincourt. O come il Duca di Vienna (Misura per Misura) che si traveste da frate anziché lasciare la città per osservare come Angelo lo sostituisca indegnamente.

Ma il "pied piper" non è sovrano mite: Ian Scott Anderson diviene d’ora in poi un colossale travestimento, dolorosamente conscio che tutto è finzione, soprattutto nello show-business. E non tornerà mai più indietro: i suoi concerti saranno destinati ad essere sempre più "professionali", impeccabili, ma scritti a tavolino. I Jethro Tull incarnano una grandiosa recita. Certo, fatta di talento, di grandi dischi, di intuizioni, ma sempre velate dal filtro acido del menestrello disincantato. E sarà sempre maggiore lo iato tra la critica, incapace di capire l’operazione intrapresa da Anderson e di riconoscerne la rigorosa coerenza compositiva, e il leader della band, ormai incamminato per un sentiero solitario, orgoglioso e a volte persino inconcludente.

L’adeguamento iconografico è immediato: i costumi di scena diventano da buffone cortigiano, cosa che la copertina di "Minstrel" renderà addirittura palese; e a proposito di copertina, qui per la prima volta Anderson appare da solo in fotografia (in "Aqualung" e "Living in the Past" era solo stilizzato o disegnato), mentre il resto della band si perde nel retro tra le storie narrate dal menestrello.

E proprio attraverso questo menestrello Anderson potrà esercitare la propria orgogliosa indipendenza mentale e fare commenti di volta in volta satirici, comici o profondi come tanti "fools" shakespeariani, dal bastardo Falconbridge a Falstaff fino - paradossalmente - ad Amleto (qui mi fermo, perché su Anderson/Amleto ci vorrebbe un libro...). Ecco allora le bordate alle istituzioni (Queen and Country), alla demenza della guerra (War Child), alla vacuità dell’apparire (Sea Lion), alla religione (Back Door Angels); ma la sottile vendetta del menestrello sta nel fatto che tutti i testi si possono leggere anche come autobiografici e mirati all’indirizzo dei critici.

Only Solitaire è paradigmatica in questo senso, eppure è in Back Door Angels che Ian indica il suo "testamento": "think I’ll sit down invent some fool, some grand court jester", ovvero la creazione del nuovo buffone da impersonare, quello che di lì a poco sarebbe diventato la musa di Baker Street, impietoso censore di una società in digregazione.

Detto questo, vanno tenute a mente alcune altre considerazioni. 1) "Warchild" è il risultato di un progetto unitario, ovvero un film (naufragato ben presto) sulle possibili scelte dopo la morte, sul bene e il male, sull’indole dell’uomo e il suo comportamento, quindi un "seguito" di Passion Play (rimando al sito www.cupofwonder.com per chi volesse approfondire la questione in inglese, in particolare sul progetto cinematografico). 2) Tecnicamente la band è in crescita, perché sperimenta nuove sonorità, dimostra di avere grande compattezza, in studio come sul palco. 3) Il disco, infine, vende bene e addirittura Bungle in the Jungle diventa un hit negli Usa, dove forse il testo non viene capito per quel che rappresenta, ma viene recepito solo come divertita filastrocca.

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PASSION PLAY: GUIDA ALL'ESEGESI (di Aldo Tagliaferro)

Questa volta ho messo la firma, che solitamente ometto, perché ciò che scrivo in queste pagine rappresenta il mio personale punto di vista, molto più che in altre circostanze. La materia è talmente difficile (o, se volete, l'idea che ce ne facciamo è molto complicata, ma in fondo non è altro che un disco...) che non ho la pretesa che la mia comprensione di A Passion Play sia quella giusta - posto che ne esista una - né esaustiva.

Ma cominciamo da un dato di fatto. Ovvero: che cos'è un "Passion play", letteralmente un "dramma della Passione" intesa come la Passione di Gesù Cristo, un "mistero sacro". Se in Italia questo tipo di rappresentazione non ha un percorso importante, bisogna invece tenere presente che nella storia medievale inglese ha svolto un ruolo fondamentale sia nell'evoluzione sociale che drammaturgica del Paese e che ogni ragazzino britannico a scuola riceve quanto meno un'infarinatura sui "Passion plays" e, più in generale, sui "Miracle plays".

Lascio volentieri l'onere di spiegare storicamente cosa sia un "Miracle play" (che comprende anche i "Passion" e - secondo alcuni - anche i "Mystery plays") all'Oxford Companion to English Literature (Oxford, 1953, third edition): "I Miracle plays sono rappresentazioni drammatiche basate sulle storie sacre o sulle leggendarie vite dei santi. Che fossero evoluzioni di canti fatti in chiesa, o espressioni spontanee del talento drammatico, è materia che fa ancora discutere i critici. Quello che è probabilmente il più antico "Miracle play" inglese, "The Harrowing of Hell", è del tardo tredicesimo secolo o inizio del quattordicesimo, sebbene questi drammi esistessero in Francia molto prima. Raggiunsero la massima espressione nel 15esimo e 16esimo secolo... Le performance avvenivano sotto il controllo delle corporazioni cittadine, dal momento che i vari episodi erano generalmente distribuiti tra le categorie artigiane, e avvenivano su palchi semoventi in forma di processione da un posto ad un altro, oppure nello stesso posto. Le scene potevano variare fra i 180 e gli 800 versi, ed erano scritte con metrica differente, a volte in rima. I plays venivano eseguiti per lo più durante le feste, al Corpus Christi, a Natale, Pasqua. Non solo nei plays non scarseggiava lo humour, ma sono addirittura fondamentali nella storia della drammaturgia per aver introdotto l'azione comica secondaria...".

Il "Passion play", in questo contesto, è un "Miracle" che ha come oggetto la Passione di Cristo. Un paesino tedesco dell'alta Bavaria - Oberammergau - era particolarmente noto per le rappresentazioni di "Passion plays", ospitati ogni dieci anni a partire dal 1633. Lo stesso Johann Sebastian Bach, che Anderson ha dato prova di... conoscere, ha scritto delle "Passioni" (quella di San Giovanni? ?e di San Matteo) che costituivano la parte centrale della liturgia per la settimana santa. Ora, "A Passion Play" è proprio una rappresentazione della "passione" trasportata nei tempi moderni: la lunghezza, il tema (vedremo poi chi sia il protagonista di questa "passione"), l'intermezzo comico, il cambio di scenari sono tipici di una tradizione antica e che Anderson ha probabilmente ereditato come Dna britannico più di quanto abbia coscientemente rielaborato.

Se ricordate il modo in cui abbiamo inquadrato i primi lavori dei Jethro, ricorderete una sorta di crescita continua della complessità narrativa e delle tematiche affrontate: lo scontro generazionale all'interno della famiglia in Stand Up, le difficoltà della vita di coppia (il secondo stadio del nucleo familiare) in Benefit, l'attacco deciso all'ipocrisia religiosa in Aqualung e infine la delusione per la grettezza della società contemporanea e la crisi dei rapporti generazionali in Thick as a Brick. A questo era seguito il tentativo abortito del disco registrato in Francia - Nightcap #1, per intenderci - dove Anderson non aveva trovato la direzione giusta ma stava lavorando comunque su un tessuto drammaturgico, dove il teatro è il centro dell'azione. Con "A Passion Play" la mente dei Jethro non può che compiere l'ultimo gradino della scala iniziata nel '69, e cioè mettere in discussione la vita dopo la morte. Interrogarsi sulla religione non più come strumento secolare nelle mani della Chiesa ma come sintesi di fede, di volontà di conoscenza dell'uomo; come necessità, ancora, di capire quale sia il destino dell'uomo in questo mondo. E per farlo Anderson intraprende un viaggio in quello successivo - novello Dante - usando come porta d'accesso il teatro, ovvero la rappresentazione a cui conferisce un carattere forse eccessivamente serio richiamando fin dal titolo la drammaticità dei "plays" medievali. Parallelamente la musica di Anderson compie un altro salto di qualità: non più canzoni (come nei primi quattro dischi) e nemmeno un collage di parti musicali abbastanza semplici come in Thick as a Brick, ma un fluire articolato e apparentemente disomogeneo di melodie. Riconosco che Anderson non è in realtà mai stato poco "immediato" come in questa circostanza e comprendo di conseguenza chi non riesce a digerire "A Passion Play" musicalmente (del resto non solo i critici stroncarono il lavoro, ma molti fans abiurarono i Jethro). Ritengo però che le vette compositive del disco, la ricercatezza nella composizone e il rifiuto di scelte scontate siano eguagliate in pochi momenti della produzione andersoniana. Vista da un certo punto di vista, può trattarsi di un esercizio stilistico, ma un esercizio di grande, grandissimo spessore.

Torniamo a noi. E cerchiamo, allora, di capire cosa voglia dire Anderson lungo le due facciate del disco. Le recensioni dell'epoca, anche quelle inglesi e americane, brancolavano nel buio e questo ci conforta: non è solo un problema linguistico quello che concerne "A Passion Play", anche se il linguaggio e la costruzione sono veramente complicati. E colti: nonostante le risposte evasive sempre fornite da Anderson, ci sono in realtà riferimenti abbastanza precisi alla Divina Commedia e al Libro della Rivelazione dal Nuovo Testamento.

Molto in sintesi: "A Passion Play" è un viaggio di un pellegrino (l'uomo moderno = Gesù Cristo = Anderson) nelle possibilità di vita dopo la morte (fondamentalmente quelle cristiane - Inferno, Purgatorio, Paradiso - ma non solo) per capire in realtà quale tipo di fede possa aiutare l'uomo a vivere meglio la vita terrena; a capire, insomma, cosa siano il Bene e il Male. Il viaggio però - così come l'intermezzo ludico centrale che fa da contraltare alla trama principale - non fornisce una risposta netta (l'unico suggerimento pare quello della reincarnazione, del ritorno alla vita). Resta da vedere se Anderson non sia riuscito a darne una o se la sua volontà finale fosse proprio questa, lasciando trionfare un pessimismo fatalistico, "tale da far sembrare - scriveva il Toronto Globe and Mail il 31 maggio 1975 - i Black Sabbath un branco di simpaticoni ottimisti".

Come in ogni rappresentazione che si rispetti, le coordinate dell'opera sono riassunte in? ?un libretto (che corredava il long-playing originale e si ritrova nell'edizione cd 24 carati), simile agli opuscoli che vengono distribuiti a teatro con le indicazioni sul cast, le scene, la produzione, durata ecc. Qui veniamo a sapere i nomi degli interpreti e alcune note biografiche. Non tutte campate in aria: di John Evan si dice che era figlio di una insegnante di pianoforte (cosa vera), di Anderson viene ricordato il primo soprannome, "Elvoe", altro elemento tratto dalla realtà. Questi i nomi di scena: Derek Small (che vuol dire piccolo...) per Martin Barre, Ben Rossington per John Evan, John Tetrad per Barriemore Barlow, Max Quad per Jeffrey Hammond e Mark Ridley per Ian Anderson. Otto i personaggi indicati (in ordine di apparizione): Ronnie Pilgrim (Max Quad), l'Angelo (Lilly Schnaeffer), Peter Dejour (Mark Ridley), l'operatore Tv (Derek Small), G. Oddie senior (Ben Rossington) e G. Oddie junior (Lou Purcell), Lucy (Ronald Pleasant) e Magus Perdé (John Tetrad).

Quattro gli atti. Atto I: Il funerale di Ronnie Pilgrim: una mattina d'inverno al cimitero. Atto II: La Banca della Memoria: un piccolo ma confortevole teatro con uno schermo cinematografico, la mattina successiva (qui il protagonista, che intanto ha incontrato Peter Dejour, o Pietro del Giorno, rivede la sua vita). Dopo l'intervallo ecco l'Atto III: L'ufficio di G. Oddie e figlio, due giorni più tardi. Atto IV: Il salotto di Magus Perdé a mezzanotte (Ronnie va all'Inferno, vede prima Lucifero e quindi Magus Perdé e termina con la reincarnazione). Non è molto, ma si comincia in qualche modo ad inquadrare la situazione, che riassumo citando le parole di Jan Voorbij, il danese che cura il sito dedicato ai testi dei Jethro e che dedica molto spazio a "A Passion Play": "Dunque, cosa ha a che fare tutto questo con il Bene e il Male di cui parlava Anderson? Intanto sono presenti sia Dio che Lucifero, dunque Ronnie sembrerebbe una metafora dell'umanità. Non accetta né Dio né Satana: Here's the everlasting rub: neither am I good nor bad / I'd give up my halo for a horn and the horn for the hat I once had (ecco l'eterna difficoltà: non sono né buono né cattivo / baratterei la mia aureola per le corna e le corna per il cappello che avevo un tempo). L'Uomo non è totalmente buono né totalmente cattivo, ma entrambe le cose. Questo paradosso permea le nostre esistenze. I tre album precedenti erano degli attacchi alla società moderna. Questo album tralascia questo aspetto (sebbene Dio abbia un ufficio) a favore di un commento più ampio su un aspetto della natura umana".

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DA ALEISTER CROWLEY A PASSION PLAY

Edward Alexander Crowley (Lemington Spa, 1875 - Hastings, 1947), meglio noto con lo pseudonimo di Aleister Crowley, fu un personaggio perlomeno singolare. I suoi genitori, membri di una severa setta integralista cristiana (i Plymouth Brothers) lo avviarono giovanissimo ad una rigida educazione religiosa. Aleister ne ricavò una profonda conoscenza biblica e un altrettanto profondo disgusto per il cristianesimo. Frequentò il Trinity College di Cambridge, che abbandonò poco prima di conseguire la laurea; in realtà, Crowley fu cacciato perché sorpreso in camera con un numero imprecisato di studentesse. Risale ad allora il suo primo contatto con la tradizione esoterica anglosassone. Un amico lo presentò a George Cecil Jones, affiliato all'ordine ermetico della Golden Dawn, una società occulta che vantava tra i suoi membri personaggi del calibro di W. B. Yeats e Dion Fortune. Nella Golden Dawn Crowley studiò l'alchimia, i tarocchi, l'astrologia, la qabalah ed altre materie legate alla magia e all'ermetismo. Dal momento del suo ingresso nella Golden Dawn (1898), Crowley bruciò le tappe della gerarchia dell'ordine. Lo scisma interno all'associazione (1900) interruppe la sua ascesa lungo la scala gerarchica; Crowley decise allora di lasciare l'Inghilterra per un lungo viaggio in oriente, intenzionato a cercare una via di fusione tra la tradizione magica occidentale e il misticismo orientale. Nel 1903 sposa Rose Kelly e si reca assieme a lei al Cairo. Durante una trance, la moglie dichiara di essere in contatto con la divinità egizia Horus. A quel punto, comincia il bello. Crowley sostiene che, con una sorta di "scrittura automatica", il dio gli ha dettato il Libro della legge di Thelema (gr.=volontà). Una legge certamente invitante, dal momento che il suo precetto fondamentale è "Fai quello che vuoi". Chiunque abbia letto Rabelais può cominciare a sghignazzare (in un episodio del Pantagruel si racconta di un'abbazia di Thelema, sul cui frontale sta scritto, appunto, "Fai quello che ti pare"). Comunque, il Nostro dichiara aperta l'era di Horus (1904) e gira il mondo entrando a far parte di tutte le associazioni magiche che può e nel 1906, assieme a George Cecil Jones (ex capo della Golden Dawn), ne fonda una nuova, la Stella d'Argento (Astrum Argentium). Nel frattempo, ne fa di tutti i colori. A parte gli episodi più pittoreschi, come girare per Londra vestito da Riccardo III con tanto di mantello e spadone o sostenere di essere riuscito a portare via la stele di Rosetta dal British Museum ipnotizzando i guardiani, apre ovunque le sue abbazie, dove si praticavano orge sfrenate e si assumevano droghe in quantità massive. Un suo allievo, il pittore Austin Osman Spare, muore di overdose, e la sifilide è diffusa tra i suoi adepti come il raffreddore. Per un breve periodo Crowley fu anche in Italia, a Cefalù, dove fondò un'abbazia di Thelema; le lamentele della popolazione arrivarono fino a Mussolini, che lo cacciò quasi subito (un resoconto romanzato del soggiorno siciliano di Aleister Crowley è fornito dal libro di Vincenzo Consolo, Nottetempo, casa per casa). Non si può davvero dire che in Inghilterra, dove era decisamente famoso, incontrò maggior fortuna. La sua vita dissoluta, condotta all'insegna dell'eccesso e del libertinaggio gli valsero il titolo di "uomo più perverso che abbia mai calpestato il suolo del Regno Unito" per bocca dello stesso Churchill. Si è sempre sostenuto (in Italia, Giorgio Galli, La politica e i maghi) che Crowley facesse l'agente segreto di Sua Maestà britannica, avendo la possibilità di infiltrarsi nei circoli esoterici che gravitavano attorno a Hitler; questa tesi non è però mai stata provata. Tornato in Inghilterra, prese possesso del castello di Boleskine, sul Loch Ness (attuale residenza di Jimmy Page). Morì ad Hastings il 1 dicembre 1947, dove è ancora sepolto, ovviamente in terra sconsacrata.?
?Crowley scrisse moltissimo; il suo libro più importante è Magick (Parigi, 1929), dove sono descritti i rituali e i fondamenti del suo sistema magico. Qui mi riferisco sempre all'edizione italiana (Astrolabio, Roma, 1976).

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Anderson cita per la prima volta Crowley nel St. Cleve Chronicle (il giornale-copertina di Thick as a brick), tra i programmi televisivi a pagina 6. Quella nota, in perfetta sintonia con il "giornale", è decisamente umoristica (Crowley va in onda di mattina presto con "Biblical Studies"). In A Passion play il riferimento è invece nel testo, anche se non esplicito.
Verso l'inizio dell'Atto IV, con Magus Perdé, incontriamo il mondo della magia. Questo personaggio enigmatico (nella traduzione di Tagliaferro si avanzano varie ipotesi sulla sua identità) è in realtà un mago speciale. Nel sistema magico di Crowley "Magus" è un grado altissimo, che solo pochi individui possono raggiungere (il secondo in ordine di importanza dopo "Ipsissimus"); si tratta quindi di un mago potente, in grado di realizzare qualunque incantesimo. Magus Perdé sta per impegnarsi in un rituale quando il protagonista lo chiama: "Magus Perdé, take your hand from off the chain". La catena (chain) un attrezzo indispensabile alla magia crowleiana, è fatta con 333 anelli di ferro dolce e viene posta attorno al collo del mago, come una collana (Magick, pp.78-80). Magus Perdé la sta prendendo quando viene distratto da Ronnie Pilgrim. Questi vuole essere riportato in vita, e suggerisce al Magus il sistema per farlo, tentandolo con la prospettiva di compiere un esperimento del tutto inusitato e potentissimo: "Break the circle / stretch the line / call upon the devil. Bring / the gods / the god's own fire. / In the conflict revel". Qui i riferimenti a Crowley si sprecano: il mago opera il rituale all'interno di un cerchio tracciato a terra (Magick, 71-4), all'interno del quale c'è un piccolo altare su cui poggia un incensiere che reca il Fuoco magico (Magick, 149). Il cerchio ha una funzione di protezione: "quando […] è tracciato e consacrato, il Mago non deve uscirne, e neppure sporgersi fuori di esso, per non venire distrutto dalle forze ostili che stanno all'esterno" (Magick, 71). Ronnie Pilgrim dice invece a Magus Perdé di stravolgere il rito: spezzare il cerchio e far entrare il diavolo, porgendo agli dèi il fuoco divino (l'incensiere) e godendosi lo spettacolo della lotta tra le forze elementari. Il mago ci prova subito, e al termine del rituale pronuncia l'ultimo incantesimo: "Man / son of man /buy the flame of ever-life (yours to breath and breath the pain of living): living BE!". All'istante, Ronnie Pilgrim compare, con un grido di gioia ("Here am I!"). Il rituale è riuscito, ma a spese di Magus Perdé che non viene più nominato. Una volta spezzato, il cerchio non ha più potuto proteggerlo dalle forze caotiche, che lo distruggono. Dopo tutto, Crowley aveva visto giusto, e il cerchio non doveva essere rotto. Ma forse Ronnie Pilgrim poteva tornare in vita solo approfittando di un mago, in fondo, un po' fessacchiotto.

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PER LA COLLANA "POCKET ESSENTIALS" E' STATA PUBBLICATA UNA GUIDA AI TULL AGILE E PRECISA A CUI HA COLLABORATO LO STESSO ANDERSON. MA E' SOLO IN INGLESE... (di Aldo Tagliaferro)

Quando i Jethro Tull erano una delle più grandi band del mondo, nessuno pensò di dedicare un libro a Anderson & soci. Giovanni Zito fu, in questo senso, un autentico precursore pur non disponendo dei mezzi necessari per una pubblicazione in grande stile. Oggi, forse per la patina di importanza che riveste tutte le storie che durano nel tempo, è tutto un proliferare di libri e libretti è al lavoro da tempo per organizzare il tour estivo 2003 della band in Italia. L'ultimo esempio è la mini-guida "Jethro Tull" pubblicata da una casa inglese ("Pocket Essentials") specializzata in volumetti agili ed economici che riguardano un po' di tutto, dal cinema alla musica alla letteratura e l'arte.
Pubblicato lo scorso settembre, il volume dedicato ai Tull è stato curato da Raymond Benson, autore eclettico noto per alcuni romanzi e sceneggiature di James Bond nonché direttore di spettacoli teatrali. La sua capacità di condensare tutto quello che bisogna conoscere sui Jethro in meno di cento pagine è davvero stupefacente, peccato che il libro sia solamente in inglese.
Veniamo ai contenuti. Il volume, dopo una densa introduzione, segue cronologicamente la storia della band dividendola in cinque capitoli: I primi anni (1947-1967), La nascita dei Jethro Tull (1968-1970), Il supergruppo (1971-1976), Allevatore di salmoni e rock-star (1977-1979), Nuova decade, nuove direzioni (1980-1990), La leggenda continua (1991-2002). Segue poi una scheda completa (e molto dettagliata) con album, singoli, video, libri, produzione solista, fan club ecc. Il racconto è per lo più incentrato sulla figura di Ian Anderson (che Benson, chiaramente, ammira) e si avvale di alcune conversazioni fatte dall'autore con il leader della band. Benson ne ha fatto buon uso e alterna la storia, costruita soprattutto sugli album, con alcuni giudizi spesso azzeccati. Anche se mi dissocio dal suo voto (1 su 5) a Stormwatch, di cui giudica noiose Dark Ages e Flying Dutchman. Ma il mondo dei Tull è bello per questo. Ogni album riceve un voto da 1 (che però, specifica l'autore, non significa "brutto" perché i Tull non hanno fatto dischi brutti) a 5, che si meritano - fra gli altri - Stand Up, Aqualung, Thick as a Brick, Litp, Songs from the Wood, Roots to Branches, Divinities.
SCHEDA - Raymond Benson, Jethro Tull, an essential guide to the legend of Jethro Tull. Pocket Essentials, settembre 2002, prezzo 3,99 sterline. Per info:
www.pocketessential.com (tel 0044 1582 761264/ fax 0044 1582 712244).

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